Marco aveva tredici anni quando arrivò da noi.

Fino a cinque anni ha vissuto nella casa dei genitori: madre prostituta, padre drogato e spacciatore.

I nonni paterni, per salvarlo da una vita di violenza, lo hanno preso di nascosto e portato ai servizi denunciando il proprio figlio.

Dai cinque ai tredici anni Marco ha vissuto tante altre brutte esperienze: ragazzino violento e problematico, e come poteva non esserlo, veniva messo alla porta da una comunità dopo l’altra, tanto da girarne nove in cinque anni. Ha avuto anche due esperienze di adozione, ma anche in questo caso le due famiglie adottive lo hanno riportato indietro al mittente non riuscendo a gestirlo.

Poi è arrivato da noi.

È rimasto in casa nostra ben oltre la soglia della maggiore età, quasi otto anni.

È stata dura? No, di più!

Ancora mi domando come ci siamo riusciti perché più volte siamo stati sul punto di mollare, di rimandarlo ai servizi affinché gli trovassero una nuova collocazione.

Ma ogni giorno abbiamo detto “Aspettiamo domani”, e così facendo sono passati i giorni, i mesi, gli anni.

Non siamo più bravi di altri, ma le motivazioni sono diverse. Le comunità hanno da gestire un’impresa e fanno il calcolo di costi e benefici, e laddove un ragazzo metta a dura prova gli educatori, si preferisce mandare via lui piuttosto che rischiare di perdere una persona e dover trovare un sostituto.

Per noi sono figli, siano essi belli o brutti, simpatici o antipatici, matti o assennati. Sono figli che il Buon Dio ci ha donato, ed un dono non lo si mette fuori della porta insieme ai sacchetti della spazzatura, seppur differenziata.

Tutto il resto è sopportazione, ma quando si sopporta per amore il carico è più leggero e più facile da trasportare

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